Flash, ti ricordi di quando eravamo bambini?
Cosa vi viene in mente con il termine “classico”? Come e perché alcuni videogiochi — e con essi specifiche meccaniche — sono divenuti dei classici? Nel senso più prossimo del termine, potremmo definire classico un prodotto tradizionale, che si rifà ad un’epoca precisa, si ispira a caratteristiche ed elementi che hanno fatto la storia e che, almeno in gran parte dei casi, sono rimasti moderni nonostante il trascorrere del tempo e la mutevolezza della moda o del mercato.
The Longest Five Minutes, JRPG pubblicato da NIS America su Nintendo Switch lo scorso 13 febbraio, propone una struttura ludica che prende a piene mani dai primi, intramontabili e classicissimi Final Fantasy e Dragon Quest, in parte anche dal riscoperto Earthbound, ma prova a dire la sua con una premessa narrativa non del tutto scontata.
Contro ogni previsione, la nostra storia inizia dalla fine. Più precisamente, ci ritroveremo invischiati da subito negli ultimi cinque minuti dell’arco narrativo. Flash, Il protagonista delle vicende, è alle prese col re di tutti i demoni. Tuttavia, per motivi che scopriremo solo in seguito, non ricorda il perché. Non solo, durante le prime battute di gioco non ha memoria nemmeno dei suoi compagni di viaggio. Starà a noi guidarlo tra un flashback e l’altro e scoprire quali eventi hanno portato lui, Yuzu, Regent e Clover ad inimicarsi il più temibile dei nemici.
Ogni ricordo ci catapulta in un luogo e in uno specifico lasso temporale, non sempre seguendo un ordine cronologico, e il l progredire degli eventi viene indicato con il livello di forza dei nostri eroi. Ci si sente subito a casa, o almeno questo penseranno i veterani del genere. Frequentemente si parla con gli NPC del posto, si seguono degli obiettivi indicati con una certa chiarezza, si esplorano dungeon e, naturalmente, si combatte — rigorosamente uno alla volta, come in ogni combat system turn based che si rispetti — contro creature di ogni tipo. Purtroppo, sin dalle prime ore di gioco, ci si rende anche conto che tutti questi elementi fungono soltanto da cornice. È la narrazione il fulcro centrale dell’opera e non sarebbe affatto un male se tutto il resto non fosse una farcitura che non aggiunge sapore alla miscela.
Il motivo è presto detto. Nonostante la diversificazione dei ruoli — guerriero, mago, prete e via dicendo — raramente il gioco ci mette nelle condizioni di usare le abilità dei nostri eroi. La difficoltà si tiene bassissima fin dall’inizio, tanto che per il 95% dei casi basterà spammare il tasto A (l’attacco di default) per abbattere i nemici in massimo un paio di turni. I boss non sono da meno — purtroppo nel senso negativo — e non impegneranno più di un minuto del vostro tempo.
A ciò si aggiunge una meccanica che, per esigenze narrative — almeno così traspare — rende del tutto inutile comprare oggetti ed equipaggiamento, per non parlare del tanto amato/odiato grinding: infruttuoso come in pochi altri giochi. Perché, vi starete chiedendo. All’inizio di ogni flashback il gioco assegna in automatico i livelli, le armi e le armature, le pozioni e persino la quantità di denaro che trasportiamo. Insomma, è facile comprendere come tale scelta vada a distruggere del tutto il senso di progressione e l’interesse nel cercare di migliorarsi, che sia tramite l’accumulo di esperienza o con la ricerca di forzieri, questi ultimi distribuiti anche con una certa generosità tra un’area e l’altra di ogni dungeon che visiteremo. L’unico modo che abbiamo di influire sulla forza dei nostri eroi è quello di completare obiettivi secondari che ci forniscono un bonus all’esperienza al flashback successivo.
Neanche il design delle mappe riesce ad offrire il degno intrattenimento. Sembra anzi che le aree di ogni dungeon siano state create con l’ausilio di un generatore automatico: non si distinguono per originalità, spesso e volentieri sono scarne e prive di qualsivoglia spunto creativo e/o artistico, si lasciano attraversare come si farebbe con un comune corridoio.
Non resta quindi che affidarsi al comparto narrativo. I ricordi più interessanti sono quelli dove si vengono a scoprire i legami tra i vari eroi, le motivazioni che li hanno spinti a prendere determinate scelte nel corso della vita, cos’ha portato i demoni ad invadere il mondo e a bramare, assalto dopo assalto, l’estinzione dell’umanità. I dialoghi riescono a creare la giusta empatia, delineano alla perfezione i tratti di ogni personaggio e aiutano ad immergersi in quella che è, a tutti gli effetti, una visual novel ispirata all’era degli 8 bit ma che, di tanto in tanto, ha una crisi d’identità e scimmiotta blasonati JRPG.
Il ritmo della narrazione si tiene su livelli medio-bassi durante la prima metà dell’avventura per poi crescere d’intensità una volta giunti all’ultimo quarto delle vicende. Con qualche piccolo colpo di scena, verso la fine dell’avventura, il copione fa un salto di qualità non indifferente, pur non toccando vette da celebrare negli anni a venire. Una storia piacevole da scoprire e ben scritta, quindi, a tratti intrigante, ma che non lascia un segno indelebile. Da segnalare poi come il gioco non sia localizzato nella nostra lingua, un deterrente più che valido per tutti coloro che non masticano al meglio l’idioma inglese.
Non è solo la storia a tenere in piedi The Longest Five Minutes, in ogni caso. La colonna sonora ci accompagna con tracce armoniose e piene di vitalità nei momenti più allegri e festosi e ci strugge con pezzi malinconici, inquieti e deprimenti quando le cose sembrano andare tutte per il verso sbagliato. Da questo punto di vista il lavoro fatto è encomiabile; in più di un’occasione, una volta spenta la console, vi ritroverete a canticchiare le melodie del gioco, in particolare il battle theme. Tristemente, non possiamo dire lo stesso del comparto estetico. Il titolo sembra girare su di un Game Boy Advance, con tutti i vantaggi dell’alta risoluzione, ma non offre spunti artistici di rilievo e non regge il paragone con altre produzioni che hanno fatto della nostalgia un elemento aggiuntivo, anziché qualcosa in grado di impoverire l’esperienza.
A conti fatti, The Longest Five Minutes è una vera e propria occasione sprecata. Se gli sviluppatori si fossero concentrati maggiormente sulla narrazione e sull’accompagnamento musicale, tralasciando la componente ruolistica o, al contrario, implementandola con le dovute modifiche, ci ritroveremmo probabilmente davanti ad uno dei titoli indie più interessanti dell’anno. L’acquisto è quindi consigliato solo a coloro che non si lasciano spaventare da lunghi tempi morti e che sono alla ricerca di una buona storia da leggere. Per tutti gli altri si tratterà di cinque minuti davvero lunghi da digerire.